Dicono di Lui
Una sezione dedicata ai contributi di altri, che raccoglie testimonianze d’autore, ricordi, letture private, pensieri, sguardi sullo scrittore. Uno spazio dove raccontare non soltanto le sue opere e le sue riflessioni politiche/artistiche/letterarie, ma anche le vicende e i luoghi della sua vita, attraverso le parole e le immagini di studiosi, lettori, amici, esperti, e di chi ha semplicemente letto e amato i suoi romanzi, i racconti, gli articoli.
- 25 Febbraio 2015
Moravia è un comico di Andrea Grazioli
Moravia e la comicità, in apparenza nulla di così lontano. Ho pensato, inizialmente, a Moravia e Woody Allen come due artisti antitetici che gettano luci opposte su tematiche simili. Eppure non mancano i richiami all'arte comica nell'opera di Moravia. Sandro Veronesi, ad esempio, nella prefazione alla nuova edizione de Gli indifferenti scrive che «quasi tutti i personaggi, in realtà, nella loro coazione a ripetere gli stessi gesti e gli stessi errori, appartengono alla tradizione della commedia dell'arte» (Sandro Veronesi, Prefazione a Gli indifferenti, Bompiani, p.X). In quanto a comicità, insomma, il capolavoro di Moravia non ne è privo. Ma, cosa più importante, è lo stesso Moravia a suggerirci questa interpretazione: se è vero, come afferma lo scrittore romano riguardo la comicità di Dostoevskij, che «ovunque c'è poesia c'è comicità» (Moravia-Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, p. 198) quest'ultima non può certo mancare nei romanzi di Moravia.
Quello della comicità è da sempre un tema estremamente spinoso che ha messo in serie difficoltà filosofi, antropologi e psicologi. Uno dei contributi migliori è, a mio avviso, il famosissimo libro di Henri Bergson Il riso. Saggio sulla comicità.
Ed è proprio da questo testo che vogliamo partire per analizzare la comicità moraviana. Il riso secondo il filosofo francese è uno strumento di correzione e castigo a cui ricorre la comunità al fine di sedare ed espellere dai propri confini comportamenti considerati troppo “rigidi”. Vizi e cattivi irrigidimenti dell'anima e del corpo, dunque, che si oppongono all'infinita ricchezza creatrice della natura.
La comicità bergsoniana ha tre caratteristiche principali: è un fenomeno puramente umano, intelligibile (comporta cioè una dimensione di insensibilità o di indifferenza, per dirla con Moravia) e sociale. Ma è necessario far emergere una quarta caratteristica: l'impersonalità. Perché una scena sia comica è necessario che il malcapitato protagonista dia l'impressione di essere dominato da una forza sovrappersonale incapace di controllare. Bergson suggerisce dunque che nella commedia il vero protagonista sia sempre un 'vizio comico' impersonale che si unisce intimamente al soggetto conservando però un proprio carattere indipendente e diventando, così, il vero protagonista sulla “scena”. Una forza invisibile che guida e tira i fili dei personaggi, senza che questi ne siano consapevoli. L'impersonalità comica è dunque quella dei gesti (differenti dalle azioni della tragedia) che agiscono i personaggi in scena, i protagonisti dei romanzi e gli individui nel mondo. Ciò che intendo mostrare è la connessione tra il concetto di impersonalità bergsoniano e quello, girardiano, di imitazione per leggere la comicità moraviana.
Il concetto di imitazione, o mimesi, nella teoria di René Girard è in realtà molto complesso. L'imitazione è innanzitutto imitazione del desiderio dell'Altro o, meglio ancora, desiderio d'essere l'Altro che si manifesta nel desiderare ciò che il nostro modello (che presto diverrà rivale) desidera o possiede. Ne Il borghese gentiluomo, esempio scelto da René Girard, si mostra quanto la discordia «sembra godere di un potere autonomo che ribadisce le sue prerogative, specialmente contro coloro che hanno l'insensata illusione di imbrigliarne la violenza» (René Girard, Un pericoloso equilibrio, in La voce inascoltata della realtà, Adelphi, p. 221). Il filosofo che, entrando in scena, vuole assumere il ruolo di mediatore, mostrandosi cioè al di sopra della insensata rivalità, dimostra in realtà di essere identico ai suoi tre colleghi, viene cioè “contagiato” dal loro stesso desiderio e risucchiato nel vortice di rivalità che, inizialmente, aveva la presunzione di controllare, dimostrando così «di essere più o meno identico ai suoi tre colleghi» (Ibidem, p. 228). Laddove si sognava l'instaurarsi di una essenziale differenza (che è sempre gerarchica, ossia concepita in termini di superiorità/inferiorità, componente importante nelle dinamiche relazionali presenti nei lavori di Moravia) tra due o più soggetti, ci si ritrova a fare i conti, invece, con ciò che Girard chiama la crisi delle differenze.
Nella scena di Molière «un individuo sta cercando di imporre al suo ambiente quella che egli ritiene essere la sua legge di condotta» (Ibidem, p. 227) l'effetto comico scatta nel momento in cui «la sua pretesa di viene mandata all'aria» e a «prendere il sopravvento sono delle forze di carattere impersonale» (Ibidem, p. 227), come l'imitazione, che mettono in mostra, a differenza del progetto iniziale, una sostanziale identità e simmetricità tra i personaggi. Nelle forme rudimentali di commedia queste forze impersonali vengono spesso ricondotte all'azione della forza di gravità, «ma nei nostri sforzi quotidiani di affrontare con successo la realtà, esistono ostacoli peggiori della forza di gravità. Gli altri esseri umani e noi stessi rappresentiamo la più formidabile e la più ostinata pietra d'inciampo» (Ibidem, p. 228). Nell'universo sociale il desiderio mimetico può imporsi, dunque, come forza di carattere impersonale, la più potente forse, soprattutto nel momento in cui, come spesso accade, facciamo di tutto per misconoscerlo, eluderlo e nasconderlo: lo schema è lo stesso dell'uomo che scivola e cade sul ghiaccio, esso è comico «in misura proporzionale alla sua prudenza o alla sua sicumera: entrambi i fattori per quanto opposti, si rivelano ugualmente» impersonali e mimetici, «incapaci di preservare son équilibre avec sa dignité» (Ibidem, p. 227). Un magistrale esempio ce lo fornisce Alberto Moravia nel suo lavoro comico intitolato Io e lui, romanzo in cui vengono trattate a fondo le dinamiche mimetico-rivalitarie, con un retrogusto comico-dostoevskiano, sottostanti ai rapporti interpersonali.
Il romanzo ruota attorno a due personaggi, Federico, sceneggiatore che cerca di fare successo, ma che per ora è relegato ai margini del mondo cinematografico, e “lui”, ossia l'organo sessuale di Federico, un fallo parlante che a detta del suo “proprietario” è il vero responsabile dei suoi fallimenti. Per Federico il mondo si divide in due sfere: la prima, paradisiaca, dei sublimati, cioè di coloro che deviano la pulsione sessuale verso mete artistiche e, più in generale, verso oggetti socialmente valorizzati, e la cerchia infernale dei desublimati, della quale anche Federico (a causa del suo “lui”) fa parte. Il protagonista si trova a fare i conti, per realizzare il film L'espropriazione, con Maurizio, personaggio che viene presentato da subito come una sorta di principe dei sublimati. A capo di un gruppo di giovani rivoluzionari che hanno ideato la trama del film, Maurizio ha il potere di decidere della sceneggiatura scritta da Federico e della possibilità, per quest'ultimo, di diventarne il regista. Ad un certo punto del romanzo il giovane rivoluzionario si presenta a casa di Federico, lamentando la vena antirivoluzionaria e borghese della sceneggiatura scritta da quest'ultimo. Sembrerebbe che ormai per l'aspirante regista ci sia ben poco da fare: Maurizio e il suo gruppo hanno deciso di estromettere Federico dalla realizzazione del film, a meno che quest'ultimo non versi un somma di cinque milioni di lire come donazione alla causa politica del gruppo di Maurizio. Al protagonista risulta subito di essere vittima di un ricatto ma, la sola presenza del sublimato Maurizio (vero e proprio modello-rivale del protagonista), pregiudica il comportamento di Federico. Il rapporto con Maurizio è caratterizzato da un progetto estremamente mimetico-rivalitario. Federico vive nel tentativo di mostrarsi “al di sopra” del giovane rivoluzionario ma la realtà smentisce quotidianamente il suo sogno ad occhi aperti, e fa di Federico il “fedele” affascinato e totalmente in balìa del suo dio. Il modello del desiderio di Federico, quello di diventare finalmente un sublimato, è simultaneamente un rivale imbattibile, ed è stato scelto, come afferma Girard, proprio a partire da questa netta superiorità.
Al momento della consegna del denaro Federico rinfaccia a Maurizio la triplice natura del ricatto, «del rivoluzionario al controrivoluzionario. Del ventenne al trentacinquenne. Dell'uomo d'azione all'intellettuale» (Alberto Moravia, Io e lui, Bompiani, p. 160), eludendo il quarto, il più importante, quello del sublimato ai danni del desublimato. Sembra che finalmente voglia e possa smascherare il suo rivale:
«Maurizio cava dalla tasca della sahariana, con la massima facilità e semplicità, il mazzo di biglietti da banca, lo mette sulla tavola, si alza: “Se è così, ti rendo il denaro. Ciao” […] Provo all'idea che Maurizio se ne vada dopo avermi gettato in faccia i miei cinque milioni un'angoscia il cui carattere non mi sfugge purtroppo: è l'angoscia di chi, uomo o donna, si vede abbandonato dalla persona che ama […] Afferro il mazzo di biglietti da banca e mi precipito fuori nello studio […] D'improvviso eccomi a terra, in ginocchio davanti a Maurizio, sì, io l'intellettuale […] in ginocchio davanti a una sbarbatello […] Poi avviene l'incredibile. Mi sporgo a prendere un biglietto che gli sta appresso al piede destro e non so se intenzionalmente o per caso, ecco, davvero, tocco per un attimo con le labbra la punta della scarpa» (Ibidem, pp. 160, 161).
Molière e Moravia mettono in scena le impersonalità che possono sorgere dalle dinamiche mimetiche e che “smembrano” ciò che un uomo deve essere o deve diventare, soprattutto secondo ciò che la società esige. L'imitazione del desiderio è il personaggio centrale e invisibile che “colpisce” i personaggi e li domina, un vizio che proviene dal di fuori, ma capace di unirsi intimamente alle persone e può dunque essere la causa di quella «perdita di autonomia e padronanza di sé che è presente in ogni forma di comicità» (René Girard, cit., p. 230), facendo della commedia l'espressione massima, a nostro avviso, della “verità romanzesca”
Nell'universo moraviano, come ben dice Simone Casini, è impossibile, perché risulterebbe ridicola, qualsiasi forma di tragedia. Non ci resta che la comicità, verrebbe allora da aggiungere. In un mondo come il nostro, individualista e vanitoso, che ripudia qualsiasi forma di imitazione, questa non può che trasformarsi in una pecca comica, ossia nella manifestazione di una dominante impersonalità/sovrappersonalità smascherante che non può non far ridere. Ad essere mimetico, infatti, è proprio quel desiderio di autenticità che la società contemporanea esige da ognuno di noi, trasformandoci in modelli/rivali e discepoli gli uni degli altri. Secondo René Girard il primo scrittore ad aver mostrato questa apoteosi del mimetico-rivalitario nell'opera romanzesca è stato Dostoevskij, riconosciuto dallo stesso Moravia come suo grande maestro. Moravia è, a mio avviso, romanziere del sottosuolo. Un sottosuolo che ritroviamo, dai sobborghi di San Pietroburgo, nei salotti delle ville romane. Non esistono eroi nel sottosuolo, ma solo individui voyeuristicamente affascinati dall'Altro, dall'Altro indifferente, sadico e odiato, con il quale si è sempre in rivalità, e in attesa di essere riconosciuti.
Un sottosuolo all'interno del quale non c'è comicità se non quella moraviana, che non ha per niente i caratteri di una “carnevalata” ma di una quotidianità futile, bieca e fine a se stessa (Corrado Bologna, Introduzione a Jean Starobinski, Ritratto dell'artista da saltimbanco, Bompiani, p. 23) capace, per questo, di gettare luce «sul baratro delle patologie novecentesche» (Sandro Veronesi, cit., p. X).
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- 12 Febbraio 2015
Demoni di Marco Cubeddu
Il mio primo incontro con Moravia avvenne a scuola. Ma Gli indifferenti aveva un sapore troppo scolastico per i miei gusti dell’epoca. Non tanto per il libro in sé, quanto per il fatto che il contatto con quelle pagine aveva a che fare con il dovere, e in quegli anni ogni forma di dovere diventava per me immediatamente sinonimo di fastidio e repulsione.
Così non lo lessi, come non lessi, eccezion fatta per alcuni brani, I promessi sposi.
Moravia, come Manzoni, o perfino Dante, rappresentavano per me soltanto il tedio delle superiori. Già alle medie, la scuola, per casualità e limiti caratteriali, era diventato un ambiente in cui mi era impossibile integrarmi.
E col passaggio al ginnasio la mia insofferenza divenne impossibile da contenere.
Non è facile sconfiggere le proprie idiosincrasie. In letteratura, come in amore, al cuor non si comanda. E non sono convinto che sia necessariamente un male. Per cui, senza rimpianti, posso dire che quell’incontro con Moravia lo mancai.
Un giorno imprecisato della primavera del 2007, quando già coltivavo l’ambizione di trasformare l’urgenza di scrivere in mestiere, comprai in una Feltrinelli un numero della rivista Nuovi Argomenti intitolato Demoni.
Quella rivista, di cui avevo sentito parlare come di un’importante istituzione letteraria (forse proprio a scuola, chi può dirlo, ma, non ricordandomelo con certezza, il fastidio non prevalse) era stata fondata, insieme ad Alberto Carocci, proprio da Alberto Moravia nel 1953.
Ricordo quel numero come se fosse ieri: il diario di Dacia Maraini, alcune poesie di Mario Santagostini, il ritrovamento di Alessandro Piperno, che ammiravo da quando avevo letto il suo esordio, Con le peggiori intenzioni, e altri scrittori che scoprii quella sera, a casa: Leonardo Colombati, Lorenzo Pavolini, Raffaele Manica, Walter Siti, e compagnia.
A quell’epoca, imprudentemente, nonostante tentassi di applicarmi alla narrativa (con scarso successo) non riuscivo a smettere di scrivere poesie.
Era qualcosa che non potevo non fare, pur vergognandomene. Non riuscivo a non tradurre ogni ansia o ogni suggestione di splendore in versi, che scribacchiavo su foglietti e volantini e a cui cercavo di dare un ordine a computer, persuaso si dovessero esorcizzare i demoni con l’esercizio, ma lo scopo di quel lavoro era piuttosto fumoso.
Ora, tutte quelle prove sparse, prive di un obiettivo, l’avevano. Ricordo nitidamente che pensai: ecco, se riuscissi a pubblicarle su Nuovi Argomenti, sarebbe la cosa più bella della mia vita.
Moravia c’entrava molto indirettamente a dire il vero. Ma in qualche modo c’entrava.
Anche perché, nonostante tutto, mi ero convinto che per poter trasformare la scrittura in mestiere dovessi scrivere un romanzo e non poesie. E Moravia era senza dubbio stato un romanziere di grande valore oltre che di grande successo.
Da quel momento lessi ogni numero del trimestrale con lo scopo di inviare qualcosa sperando che la redazione potesse ritenerlo sufficientemente buono da pubblicarlo, fino a che, non avendo scritto niente che mi sembrasse andar bene, rinunciai, e mi dissi che tutto volevo fare nella vita, ma proprio tutto, tranne che scrivere un romanzo (continuai cocciutamente con le poesie, ma di nuovo senza scopo).
Quando, anni dopo, nell’estate del 2011, fui contattato da Antonio Franchini di Mondadori, a proposito del manoscritto che avevo mandato in casa editrice (alla fine, il romanzo, sollecitato da un’improvvisa quanto ormai inaspettata urgenza, l’avevo scritto e mandato agli indirizzi di posta delle case editrici che ero riuscito a trovare su internet) venne fuori il nome di Carlo Carabba, allora caporedattore di Nuovi Argomenti, che voleva coinvolgermi nella rivista.
In quel momento stavo facendo il runner (leggi: schiavo) sul set di un film, a Varazze, in Liguria. E, precisamente, tenendo incastrato il telefono tra l’orecchio e la spalla, trasportavo delle panche per allestire la pausa pranzo per la troupe e tenevo in equilibrio un vassoio col caffè per Scamarcio, l’attore protagonista del film. Tutto potevo pensare succedesse nella mia vita, tranne che un giorno, mentre portavo un caffè a Scamarcio, mi si presentasse l’opportunità di collaborare con Nuovi Argomenti.
Moravia rientrava nella mia vita con la stessa stupefacente e imprevedibile parabola di un boomerang scagliato lontano con rabbia dopo molti, infruttuosi tentativi.
Nei mesi successivi ho pubblicato sulla rivista con diversi pseudonimi (per il bene di tutti non poesie, ma racconti), un po’ per gioco, un po’ perché, per qualche strana ragione, firmare col mio nome le cose da mettere lì dentro, mi riusciva difficile.
Una soggezione che provai fino al numero Supernova in cui non potei sottrarmi dall’usare il mio nome vero, visto che di lì a poco avrei pubblicato il mio primo romanzo e, sollecitato da Carabba, mi arresi al fatto che non avrebbe avuto senso fare altrimenti.
Quella rivista era stata, ed è tuttora, il crocevia che unisce e mette in relazione gli scrittori italiani da decenni. Una sessantenne che, in un modo o nell’altro, si mantiene giovane come una ragazzina, si rinnova tentando di mettere radici anche nel mare magnum del web, computando tweet e post, e così facendo continua a essere termometro, laboratorio e archivio della letteratura del nostro Paese.
Non mi vergogno di ammettere che, anche oggi, parlarne e partecipare alla realizzazione dei numeri, mi procura un certo formicolio, qualcosa che ha a che fare col sacro, in un certo senso, tra mille necessarie virgolette, qualcosa che comunque mi procura una sensazione molto simile a quando, da bambino, fervente cattolico (prima di diventare un soddisfatto ateo rispettoso della spiritualità altrui), chinavo il capo durante l’ostensione del corpo di Cristo nella Chiesa in cui facevo il chierichetto.
Non sono mai riuscito a leggere i libri di Moravia con lo stesso spirito sacrale. Certe cose hanno a che fare con una specie di imprinting, con sensazioni privatissime che sono profondamente convinto sia sano coltivare e assecondare. Leggere non dovrebbe mai essere un dovere, pena la perdita del piacere che spinge gli uomini a consumare storie e opere d’arte, consapevolmente o meno, per lenire il senso di spaesamento che comporta vivere sapendo di dover morire.
Leggere non è un dovere, ma una necessità, che si sente o non si sente, e non è detto che ogni libro, grande o piccolo che sia, o che ogni autore, per quanto autorevole, possa ispirarcela.
Per quanto mi riguarda non c’è alcuna differenza, ad esempio, tra Nuovi Argomenti e Topolino.
Allo stesso modo, per alcune ragioni casuali e altre materialmente imperscrutabili, sono entrambe ai miei occhi pubblicazioni mitiche, venerabili, sacrali (ho tentato invano, e ritenterò presto, di scrivere delle storie da poter mandare a Topolino, trovando la cosa di una difficoltà enormemente maggiore rispetto a quella che sento all’idea di cominciare un nuovo libro o la scrittura di un film).
Tra i libri di Moravia non ho mai sperimentato quell’urgenza, quel formicolio, quell’intersezione tra consolazione per l’idea di dover morire e aspirazione alla vita, quel qualcosa per cui credo valga la pena leggere, quel qualcosa che Vladimir Nabokov descriveva come un brivido lungo la schiena, secondo il papà di Lolita l’indicatore assoluto del godimento letterario.
E, ciononostante, penso che la figura di Alberto Moravia sia una figura imprescindibile per la mia vita.
Perché quella rivista da lui fondata, e curata, e amata, tramandata da pezzi di storia della letteratura italiana fino ai giorni nostri, molti dei quali fondamentali anche per le lettere contemporanee, è un’eredità che ha il sincero potere di commuovermi.
Le riunioni, le discussioni, le cene, gli avvicendamenti nei ruoli, la scelta dei racconti, le mail dei lettori, gli anonimi abbonati che da decenni trovano nella rivista un punto di riferimento, per non parlare delle centinaia di scrittori che negli anni le hanno regalato i loro contributi, o dei tanti e talentuosi giovani che dalla rivista hanno mosso i primi passi e si sono poi affermati come autori fra i più importanti e apprezzati dal dopoguerra a oggi, beh, tutto questo, è possibile proprio grazie a Moravia.
Non fosse che per il peso che il suo nome ha assunto, facendosi talmente pesante da arrivare, come quello di Manzoni, o di Dante, a farsi indigeribile nella testa di un ragazzino ribelle, e allo stesso tempo talmente potente da cambiargli, in qualche modo, la vita.
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