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FondoAlbertoMoravia.it

Dicono di Lui

Una sezione dedicata ai contributi di altri, che raccoglie testimonianze d’autore, ricordi, letture private, pensieri, sguardi sullo scrittore. Uno spazio dove raccontare non soltanto le sue opere e le sue riflessioni politiche/artistiche/letterarie, ma anche le vicende e i luoghi della sua vita, attraverso le parole e le immagini di studiosi, lettori, amici, esperti, e di chi ha semplicemente letto e amato i suoi romanzi, i racconti, gli articoli.

 

21 Gennaio 2015

Incoerente cronaca di un impromptu di Stefano Codiroli

Per non apparire oltremodo preambolare - giacché, premetto, sarò verboso - rischiando così puerilmente di risultar molesto a questo ipotetico ed erudito uditorio, échantillon del ceto arcicolto, m’insinuo nel vivo delle mie convinzioni inconsistenti, letterarie o meno. In altri termini, da un po’ di tempo mi sono pressochè convinto del fatto che un fuoriclasse delle lettere, un peso massimo della galassia letteraria, si distingua dalla nebulosa indistinta di scriventi, scrittorucci, scrittorini e scrittori in quanto artefice di almeno tre capolavori imperituri: ecco, a mio avviso (e per quanto possa valere), Moravia entra a buon diritto in questo novero di rari eletti. Per corroborare tale affermazione confido nella seguente triade di classici novecenteschi: «la noia», «l’uomo che guarda», «Io e lui». Del resto è difficile dire, ma della Bellezza riconosciuta ha sempre colpito la sua evidenza.

Delle letture moraviane aleggia ancora in me il ricordo di una sorta di misticismo della razionalità, una spiritualità di lucido disincanto… La soluzione ossimorica non dona forse in particolar modo a Moravia?

M’inebriai delle sue minuziose descrizioni, delle atmosfere, evocanti ed incantate come un cielo bianco sopra alla metropoli, come un viale alberato ed ombroso, un giro in macchina, notturno… E del Tempo in Moravia, così implicitamente illusorio; il ragionamento di fondo sgretolava, lentamente, ipotetici avamposti, sfigurati baluardi. (Il pensiero e la sua risacca, sorta d’interferenza in una stanza vuota.)

Per contestualizzare e dare così un senso nello spazio a queste gioviali elucubrazioni, converrebbe forse partire da Roma, quella Roma la cui singolare traiettoria decrescente - da caput mundi a garage - resta, nella sua essenza, fondamentalmente insondabile per un lombardo d’adozione quale mi riconosco.

Roma. Un giorno a Roma/Amor.

Forte di un precedente e prolungato soggiorno nel territorio di quei pecorai stanziatisi presso l’ultimo tratto del medio Rumon, i quali conquistarono in seguito il più vasto Impero forse mai prima di allora conquistato, e avendo quindi potuto godere precedentemente di alcune meraviglie dell’ingegno umano quali la cappella Sistina, il Pantheon e altro (…), dopo aver speso la mattinata a Tivoli, alfine di visitare le rovine di quello che fu il chez moi di uno dei più grandi Imperatori mai esistiti, mi recai, non prima di esser riuscito a penetrare, esuberante, nella chiesetta di Sant’Onofrio (grazie alla gentilezza disarmante di un custode probabilmente ricano dagli occhi oltremodo docili e lucenti) e aver effettuato una meditazione lampo nell’angolino ove furono raccolte le ossa del Torquato impazzito, mi recai dicevo, sul Lungo Tevere Vittoria, numero 1. Evidentemente.

«Mi scusi ma è veramente quella la casa di Moravia?»

«Chi?»

«Moravia, lo scrittore.»

(Silenzio)

«Lo scrittore, eh certo…» Sguardo inebetito, amebico.

Mi chiesi se fosse un senso del rilancio innato, radicato da sempre nella mansueta indole di quel passante, o se questi fosse stato folgorato da involontaria epifania dovuta all’afa; eppure era evidente da lontano un miglio: non intratteneva di certo un canale privilegiato con l’iperuranio platonico.

«Prova a dare un’occhiata alle bucalettere.» (Dare del «tu» era contagioso?)

Lo interpellai non tanto in vista di raccimolare misere conferme, bensì per concedermi il piacere di aggiornare uno sconosciuto qualsiasi riguardo ai miei interessi più profondi, legati da inerenti vincoli alla mia identità latente. E che volete farci? La mente aveva una vasta periferia… La sera non era lontana. Attraversai la strada, lo sguardo incerto, rivolto verso l’ultimo piano del palazzo in questione. La sera che scendeva da sopra, come sempre. Suonai il campanello. Dopo un primo scambio di repliche fra il sottoscritto e una voce maschile fuoriuscente dal citofono, in apparenza assai restìa all’inaspettata richiesta di accesso da parte di uno sconosciuto, giacché non intendevo desistere dai miei romantici intenti di pionerismo urbano, mi si mise in attesa. Passarono alcuni secondi presto interrotti da una voce femminile: «Salga, ultimo piano». La stessa voce, a cinque piani dal suolo, vibrava oltre la porta dell’appartamento, nell’ipotetico atrio, rivolgendosi a quello che di lì a poco scoprii essere un esiguo gruppo di visitatori; voce che immaginavo snodarsi in invisibili arabeschi nell’aria, allorché, esitante sulla soglia, vagliavo lapalissianamente i pro e contro dello scampanellare, comparandoli a quelli di un più schietto bussare. Improvvisamente uscirono tre persone, in sordina, cosicchè mi cavarono d’impiccio. I presenti accolsero con sguardi benevoli. La donna incaricata di guidare la visita, la cui voce riconobbi, portava ai lobi delle orecchie poetici orecchini argentati a mo’ di piccole ali d’angelo.

Ci spostammo nel salone, ove imperante, appeso sopra a maschere rituali forse gabonesi, troneggiava il portrait dell’artista dipinto dall’amico Guttuso. Sorprendente la resa delle mani, evocanti un non so che di mostruoso. Invero il mio interesse verteva innanzitutto sulle opere schierate, simili ad opliti, lungo la parete ed in primis, sui nomi che recavano impressi sopra i loro dorsi rugosi. Allorquando il gruppo si diresse verso altre stanze, chiesi umilmente il permesso di poterle ammirare più da vicino. Scorsi l’opera omnia del führer della psicoanalisi e quella di Nietzsche, al quale il proprietario della casa - non ricordo bene in quali circostanze - aveva ironicamente affibbiato l’appellativo di «Anticristo» (e che l’ultimo Houellebecq trattava da vecchia bagascia). Dopodiché perlustrai rapidamente i libri che tappezzavano dal suolo al soffitto i due corridoi pressoché paralleli, fulcro dell’appartamento e, da ultimo, ispezionai quelli collocati nello studio dello Scrittore.

Vedersi concesso il privilegio di poter flâner, seppur fugacemente, nel dedalo delle letture che nutrirono il cervello e ispirarono il pensiero di Moravia, fu una sorta di piacere scisso dal tempo. Prima di abbandonare il luogo, desideravo ardentemente contemplare la vista, sicché raggiunsi il gruppetto sulla terrazza, laddove avrei voluto restare solo, il tempo di un istante, io e lui, in intimità. M’attardai speranzoso d’indulgenza, appostandomi in un angolino solitario, rivolgendomi ai flussi inconsci dei presenti, scacciandoli con cortesia; vano tentativo di dirottarli. Di fronte, sul lungotevere Flaminio, si scorgeva la sede di un circolo di cannottieri.

Eri lì Alberto? Alzavi lo sguardo verso quel cielo plumbeo, riemerso, irreale, vaporoso, funesto, e rimembravi quelle nuvole simili a continenti dai contorni capricciosi, scorte oltre le vallate verdi di bananeti della Tanzania?… Pensavi alla tua amata Africa nera - che non avresti mai più rivisto se non nei meandri del cranio, ad occhi chiusi - a quelle albe color sangue su orizzonti neri? A quel cielo serale gremito di stelle furiosamente scintillanti, ai paesaggi di una ripetitività ossessiva?… Rimembravi gli occhi folli dei branchi di gnu, le felci e le alte erbe, il cratere di Ngoronkoro, il paradiso terrestre di Serengheti, quell’Eden e la sua particolare Bellezza nella quale l’umano e il naturale si coniugavano inestricabilmente? Rimembravi i miti, i miti che erano la poesia dell’umanità (erano), e quella paura, il solo sentimento religioso dell’Africa…

E nuove ondate di immagini, a travolgerti, a lasciarti lì inerme: l’Andansonia Digitata, vera sovrana inutile, roccaforte di spiriti e misteri, l’ubriacatura dei mercati dove fare indigestione di Abbondanza, Livingstone, La diga di Inga, sorvolandola; Rimbaud e la piscina di Kinshasa alle sei del mattino, il viale di eucalipti conducente al lago Tanganyka, e oltre, le sponde zairote; rimembravi infine i silenzi piacevoli ed infantili di Pasolini… L’originalità della donna amata. Rientri ora, Alberto? Non prima di aver ammirato per un’ultima volta quel cielo buio, il tempo di un sospiro… Lo senti ancora quel sentimento di stranezza che nell’impazienza di coricarti non stavi ad analizzare?

A volte il mattino è come un ritorno.

In conclusione, riaffiora il souvenir di quell’intervistatore Rai che chiese a Moravia:

«Moravia lei crede in Dio?»

«No» la risposta, secca.

«Ah no? E come mai?» Ribatté quell’altro, ostentando un sorrisetto giallastro.

«Vede, a me il mistero sta bene così.»

Fra le varie cose che mi hai insegnato - oh misurato maestro - straniero sul fronte dell’impellente ed improponibile bisogno (o gusto) di ciceronare vanamente riguardo all’imperscrutabile, è che: il solo modo di fuggire il possesso delle cose da cui deriva inevitabilmente la noia, la sola via possibile insomma, è la contemplazione. Verità che hai sperimentato e creduto valida per ognuno di noi. Grazie Alberto.

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KdE 21 Gennaio 2015 alle ore 19:38:37

Bravissimo!

14 Gennaio 2015

L’Europa di Moravia di Simone Cosimi

Alla luce delle vicissitudini, delle passioni e delle difficoltà che l’Unione Europea ha incontrato negli ultimi anni e con le quali continua a scontrarsi fra costituzioni e trattati, compromessi al ribasso e delusioni, referendum e pasticci burocratici, la posizione moraviana sull’Europa – paradossalmente sviscerata senz’altro in qualità ma non molto in quantità, fra le pagine del Diario europeo – appare una posizione lungimirante e ai limiti del profetico, se non fosse che prima di lui proprio i padri fondatori della Comunità Europea (alcuni, non tutti) avevano espresso idee molto simili.

Ebbene, Alberto Moravia aveva un’idea molto precisa sulla conformazione politica dell’Europa e sul suo futuro assetto istituzionale. Quanto al primo aspetto, enucleava nel Vecchio Continente un ingrediente che non apparteneva – almeno così massicciamente – alle altre potenze mondiali dell’epoca: Usa e Urss. Quello della rivoluzione. Gli pareva cioè che la cifra del continente europeo fosse proprio questa sua poliedricità, questa contestazione continua delle radici e della base della società stessa: elementi assenti o latenti altrove, dove gli Stati si presentavano monoliticamente. E quindi, in un certo senso, rivelavano il loro Dna conservatore. Moravia ne coglie la radice profonda in una caratteristica decisamente culturale, che differenzia l’Europa dagli altri continenti:

In Europa, invece, il mito della rivoluzione a partire dal 1789 fino al recentissimo ’68 è stato addirittura istituzionalizzato. Gli stati, le società, in Europa, durano e continuano, ma non sembrano mai del tutto stabili. […] L’Europa è un continente nervoso, scontento, problematico, ed è notevole che lo è non soltanto nelle parti occidentali ma anche in quelle orientali, dal Portogallo alla Polonia. Perché questo? Tra le tante spiegazioni, si potrebbe avanzare quella che il mito della rivoluzione è soprattutto un fatto “intellettuale”. Allora non si può fare a meno di notare che l’Europa è un continente degli intellettuali: cinque europei su dieci o sono degli intellettuali o, ciò che più importa, sono intellettualizzati, cioè potrebbero diventarlo senza sforzo. Gli intellettuali formano in Europa un partito sommerso, trasversale a tutti gli altri partiti, il quale rappresenta non già gli interessi costituiti, ma le tendenze via via affioranti della cultura. Questo genere di intellettuali non integrati non esiste negli Usa e nell’Urss o per lo meno non esiste in numero tale da costituire un gruppo sociale rilevante. [A. Moravia, Diario europeo, Bompiani, 1993]

Oltre a questo, l’Europa è spaccata al suo interno perché incorpora due tipologie differenti di nazioni. Da una parte, quelle nordiche, quelle che “duemila anni fa erano in movimento come i popoli del Mediterraneo ai tempi di Erodoto”. Dall’altra quelle del sud, come l’Italia, che ha cominciato a diventare nazione poco più di un secolo fa e con grandi difficoltà.

Di grande efficacia, continuando il discorso sull’Europa, è la metafora della “stoffa double-face” proposta dallo scrittore nel 1988. Che individua così bene i contrasti laceranti che sarebbero divampati nei decenni successivi fra le varie componenti del patto europeo. Non ultime le fibrillazioni – e i fallimenti – sull’approvazione della Costituzione europea e sul tribolato Trattato di Lisbona del 2007, senza dover per forza arrivare alla crisi in corso. Anche se, come precisa in seguito, le dinamiche sono dialettiche. E più che ad assomigliare a un tessuto a doppia faccia, lo spirito europeo pare un uragano africano: che riversa a terra torrenti di acqua ignorando i particolarismi e i confini – talora fittizi – che popolano il continente nero.

Una ricca e preziosa stoffa double-face. Da una parte, ci sono i particolarismi feudali, monarchici, nazionali; dall’altra, l’universalismo culturale europeo. Da una parte, una tessitura multicolore come un patchwork; dall’altra, una sola tinta viva e profonda. E l’Europa, nel corso della sua storia, si è ammantata ora della prima e ora della seconda faccia di questo suo abito millenario. Questa metafora ha però il difetto di essere troppo tranquilla, disinvolta, elegante e, soprattutto, di non dirci che il rapporto tra particolarismi e universalismo non è mai stato né facile né continuo bensì dialettico, cioè drammatico, con interruzioni, contrasti e cambiamenti bruschi ed esplosivi. [Ibidem]

Lo spirito europeo, secondo Moravia, ha avuto una storia prestigiosa, ammantando di sé anche le altre superpotenze, che da esso hanno preso le mosse. Viceversa, la storia dei particolarismi è stata assai meno positiva, comportando in una fenomenologia fulminante – tipica della prosa giornalistica moraviana – le peggiori nequizie della storia del Vecchio continente e, nelle sue versioni edulcorate di oggi, preannunciando i pasticci generati da interesse e finte sovranità che oggi mettono nei guai l’Unione Europea.

Essi sono stati considerati per molto tempo la gloria dell’Europa ma la loro rapida corruzione dimostra che questa gloria, priva del supporto dello spirito europeo, dell’universalismo culturale europeo non poteva che rivelarsi scarsa e vuota. L’Europa delle nazioni ha provocato la prima guerra mondiale che è stata la guerra di tanti nazionalismi, l’uno contro l’altro armato. Poi, per liberarsi del nazionalismo degenerato in fascismo, l’Europa ha lottato contro se stessa ma non è riuscita a vincere la lotta da sola, c’è voluto l’aiuto delle due superpotenze, Usa e Urss. E tuttavia questa è la vera storia recente dell’Europa, ed è da questa lotta strenua e disperata contro se stessa, dalla quale l’Europa è uscita esausta, che domani potrà scaturire il nuovo spirito europeo, il temporale benefico che renderà di nuovo fertili i suoi territori oppressi dalla siccità. […] Si, l’Europa era un continente debole e diviso, stretto tra due superpotenze monolitiche e superarmate. Ma in queste due superpotenze non esiste il partito rivoluzionario, esiste soltanto il partito della conservazione. E si capisce anche perché: ciò che l’Europa ha fornito alle due superpotenze al momento della sua massima espansione è ancora vivo e operante, e per questo non deve essere cambiato, a nessun patto. Ma forse è proprio questo carattere monolitico delle due superpotenze che domani potrà renderle di nuovo debitrici ad un’Europa che, dalla sua divisione drammatica, avrà avuto invece la forza di ricavare un nuovo spirito, una nuova risposta universale e creativa alle domande del mondo moderno. Il mondo non sarà forse domani né americano né sovietico ma, ancora una volta, europeo. [Ibidem]

Ora, sembrerà pleonastico e un po’ troppo celebrativo sottolineare l’ennesima anticipazione tematica contenuta nelle parole di Alberto Moravia. Ma è davvero impossibile non rimanerne incantati di fronte alle decine di testi, studiosi e pensatori che almeno negli ultimi dieci anni – forse con troppa avventatezza? – avevano scommesso sull’Europa. Primo fra questi, nonché uno dei più celebri, Jeremy Rifkin, economista statunitense che ha parlato addirittura, ripreso in pompa magna da decine di testate di tutto il mondo, di un nuovo sogno europeo. Un sogno adatto alle sfide dell’oggi, adeguato alla globalizzazione, ai nuovi approcci sullo scenario internazionale. Certo, il panorama tratteggiato da Rifkin assomiglia più a quegli affascinanti rendering realizzati dagli architetti coi loro potenti computer per i loro progetti: a guardarli, il lavoro sembrerebbe cosa fatta. E invece fra i rendering e la realtà si frapporranno in sede di realizzazione pratica difficoltà di ogni genere.

“Duecento anni fa i fondatori dell’America regalarono all’umanità un sogno che trasformò il mondo. Oggi, nel XXI secolo, una nuova generazione di europei dà vita a un sogno radicalmente diverso, più adatto ad affrontare le sfide della società globale”. Lo sostiene Jeremy Rifkin, il presidente della Foundation on Economic Trend di Washington, nel suo nuovo libro intitolato provocatoriamente "Il sogno europeo". Con buona pace di quanti ancora oggi parlano di american dream, i valori sui cui investire oggi in questa epoca buia sembrerebbero dunque quelli patrimonio del Vecchio Continente. Con 25 nazioni, 455 milioni di abitanti e un Pil di 10.500 miliardi di dollari, gli “Stati Uniti d’Europa” hanno ormai superato quelli d’America e sono diventati la più importante economia del pianeta, un gigantesco laboratorio dove ripensare il futuro dell’umanità.

"Il sogno europeo" di Rifkin è fatto di sviluppo sostenibile, integrazione sociale, responsabilità collettiva. Oltre che - e non è poco - di migliore qualità della vita. In molte nazioni europee - sostiene Rifkin - si vive meglio che negli Stati Uniti: c'è meno criminalità, migliore istruzione e più tempo libero, maggiori protezioni sociali. “Il Sogno europeo è un fascio di luce in un paesaggio sconvolto: ci indica la via verso una nuova era di inclusività, diversità, qualità della vita, ‘gioco profondo’, sostenibilità, diritti umani universali, diritti della natura e pace sulla terra. Gli americani sono soliti dire che per il Sogno americano vale la pena morire. Facciamo in modo che per il Sogno europeo valga la pena vivere”.

Ovviamente, la nuova Unione europea non è esente da difficoltà e debolezze, né i suoi nobili principi sono sempre immuni da ipocrisie. Ma l’importante, secondo Rifkin, è che oggi essa offre all’umanità una nuova e ardita visione del futuro, all’altezza delle sfide poste dalla società globale, forse un’alternativa vincente alla vecchia e appannata utopia americana.
“Per quanto io sia visceralmente legato al Sogno americano, e soprattutto alla sua incrollabile fede nella preminenza dell’individuo e della responsabilità personale, la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno europeo, che esalta la responsabilità collettiva e la consapevolezza globale”
[Stefano Natoli, “Jeremy Rifkin: il sogno europeo”, 17 giugno 2008]

Non c’è d’altronde bisogno di arrivare al recentissimo Jeremy Rifkin per individuare, affondando in pieno XIX secolo, il mito dell’Europa unita. Che, contrariamente a quanto si ritiene, non è del tutto Novecentesco. Basti pensare, tanto per fare un esempio, al celebre discorso del 1849 pronunciato da Victor Hugo. Questo sì che nel suo profetismo – pare infatti una certezza anche sotto il profilo economico, quella dello scrittore francese, più che un auspicio – batte anche Alberto Moravia. Da notare, e chissà che il furbo Rifkin non abbia attinto proprio a questo riferimento, l’uso roboante che Hugo fa dell’epiteto “Stati Uniti d’Europa”. È un peccato constatare come ancora oggi sentire un’espressione del genere comporti stupore e incredulità, come se i tempi non fossero ancora maturi per un passo tanto importante.

Verrà un giorno in cui Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania, voi tutte, nazioni del continente, pur non perdendo le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete per stringervi in un’unità superiore e vi costituirete come fratellanza europea, esattamente coma la Normandia, la Bretagna, la Borgogna, la Lorena, l’Alsazia, tutte le nostre province si sono fuse nella Francia. Verrà un giorno in cui non vi saranno altri campi di battaglia che quelli dei mercati aperti ai commerci e delle menti aperte alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le bombe lasceranno il posto al voto, al suffragio universale dei popoli, al venerabile arbitraggio di un grande senato sovrano che sarà per l’Europa ciò che il Parlamento è per l’Inghilterra, ciò che la Dieta è per la Germania e l’Assemblea legislativa per la Francia! Verrà un giorno in cui si esporranno i cannoni nei musei come oggi si espongono gli strumenti di tortura, e ci si stupirà che sia potuto accadere! Verrà un giorno in cui si vedranno queste due immense compagini: gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, l’una di fronte all’altra, tendersi la mano al di là dei mari, scambiarsi i loro prodotti, i loro commerci, le loro industrie, le loro arti, i loro geni, dissodare il globo, colonizzare i deserti, migliorare il creato sotto lo sguardo del Creatore, combinando insieme, per trarne il benessere di tutti, queste due forze infinite: la fratellanza tra gli uomini e la potenza di Dio!  [Victor Hugo, “Discorso di apertura alla Conferenza di pace”, Parigi, 21 agosto 1849]

Dunque escono due aspetti inevitabili del pensiero europeo moraviano. Da una parte, lo scrittore appare uno dei (non molti) eredi di quegli utopisti che fra Ottocento e Novecento hanno immaginato (alcuni) e messo in pratica (pochi altri) un’Europa come istituzione sovrana sovranazionale – e non internazionale. E quindi non una mera associazione fra Stati – la storia ne ha conosciute molte – ma un organo super partes così come il visionario Altiero Spinelli l’aveva concepito. Prima del padre fondatore romano, infatti, c’erano appunto stati molti pensatori che – in chiave più o meno utopistica, quale doveva apparire anche quella di Victor Hugo – avevano pensato un Vecchio continente privo di confini e barriere fra un Paese e il suo vicino. Ma nessuno, di fatto, aveva avuto la possibilità di tratteggiarne un disegno politico realistico. Salvo poi, ma questo è noto, convergere su posizioni federaliste. Ma il principio, come ha scritto anni fa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, era chiaro.

Altiero Spinelli capì che soltanto se si fosse messo un limite alle sovranità nazionali, soltanto se si fosse cercato di costruire qualcosa di diverso da una semplice alleanza tra gli Stati sovrani, soltanto se si fosse trovato il modo di mettere insieme delle sovranità, delle funzioni, dei poteri, per esercitarli al livello sovranazionale, si sarebbero potute superare le contraddizioni ed evitare le sciagure del passato. Ed ecco che Spinelli, in quella piccola isola, scrive il suo Manifesto. [Giorgio Napolitano, “Il grande visionario che inventò l’Europa”, «La Repubblica», 25 agosto 2007, p. 52]

Moravia appartiene dunque a questa famiglia, a questo filone: quello degli Spinelli, dei De Gasperi, dei Rossi, dei Colorni. Una famiglia decisamente contraria a un’Europa strettamente intesa come mera Europa delle nazioni. Probabilmente, il concetto stesso di Europa delle nazioni pareva a Moravia un corto circuito dal quale fuggire. Inevitabile, d’altronde, per un cosmopolita come lui. Non certo un relativista puro, ma un uomo e un intellettuale abituato a confrontarsi con il diverso senza posizioni di predominanza e sparecchiando la tavola dai pregiudizi che inficiano il discorso a priori. Tuttavia, e questa sarà una delle ultime insolubili contraddizioni che il vecchio scrittore serbava soprattutto negli ultimi anni della sua vita, in altri luoghi, come nella biografia con Elkann, pare un po’ tornare sui suoi passi. Continua a condannare l’Europa delle nazioni, che ha condotto a due devastanti conflitti mondiali. Ma stavolta il suo spirito europeo, il suo sogno pare parzialmente appannato, sembra aver perso un po’ del suo vigore iniziale. Anzi, a ben vedere – e questo dimostra che solo in superficie i suoi interventi a distanza di anni si contraddicevano, come spesso abbiamo avuto modo di precisare – Moravia approfondisce i problemi che arriveranno, sfiorando addirittura il tema, così sensibile di questi tempi, dell’immigrazione e dell’integrazione degli stranieri. Sfida il tempo, insomma. Come solo gli intellettuali lungimiranti sanno fare. Stavolta, addirittura, equipaggia la sua profezia di un orizzonte temporale ben preciso.

Elkann: È però un cambiamento straordinario pensare che popoli che si sono sempre fatti la guerra oggi siedono nello stesso parlamento.

Moravia: Si, questo è vero, tuttavia bisogna ricordare una cosa, che l’Europa è in ritardo sia rispetto agli Stati Uniti sia rispetto all’Unione Sovietica. Se tu vai a New York in una ferrovia sotterranea o vai a Mosca ugualmente in una ferrovia sotterranea vedrai rappresentate tutte le razze del mondo. Così in Usa come in Urss il razzismo può essere un fatto privato, mai statale o peggio ancora sociale. L’Europa, appunto per questa sua tradizione nazionalista, è impreparata a creare delle società multinazionali del genere di quella americana o sovietica. Ora è questo che tra una ventina d’anni o anche prima sarà il problema che l’Europa dovrà risolvere e che è già stato in parte risolto negli Stati Uniti o in Unione Sovietica. In Europa insomma la spinta razziale del Terzo mondo per ora almeno non sembra avere altra soluzione che la creazione di ghetti ai margini delle grandi città. Certamente in Francia, in Germania, in Inghilterra e adesso perfino in Italia ci sono moltissime persone di colore, ma siamo ancora alla prima fase, quella che vede i nazionali abbandonare certi mestieri umilianti e lasciarli fare a gente del Terzo mondo. [A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, 1990]

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Dicono di Lui

Una sezione dedicata ai contributi di altri, che raccoglie testimonianze d’autore, ricordi, letture private, pensieri, sguardi sullo scrittore. Uno spazio dove raccontare non soltanto le sue opere e le sue riflessioni politiche/artistiche/letterarie, ma anche le vicende e i luoghi della sua vita, attraverso le parole e le immagini di studiosi, lettori, amici, esperti, e di chi ha semplicemente letto e amato i suoi romanzi, i racconti, gli articoli.  

La Casa Museo

La casa di Alberto Moravia conserva le tracce della sua vita quotidiana, dei viaggi e delle frequentazioni. Dalle maschere africane ai makemono orientali; dai celebri ritratti alle opere degli amici pittori e scultori; dai souvenir di viaggio ai dischi e ai classici della letteratura; dalle lampade pop anni Sessanta alla macchina da scrivere Olivetti 82.